Il trapianto di fegato

Il trapianto di fegato può essere realizzato con organo che proviene:

  • da donatore cadavere (un soggetto in stato di morte encefalica),
  • da donatore vivente (vedi capitolo specifico).

Il trapianto di fegato è un intervento chirurgico complesso e rischioso: sostituire il fegato, infatti, significa togliere l’organo ammalato conservandone i vasi sanguigni per poterli “cucire” (suturare) a quelli del fegato proveniente dal donatore. Tutto ciò nel tempo più breve possibile, al fine di ridurre i danni procurati all’organo dall’assenza prolungata di sangue. Per motivi organizzativi, nella maggior parte dei casi l’intervento viene eseguito di notte.

La possibilità di morire in sala operatoria esiste. Il rischio è molto basso (0.2% nel nostro centro) e va tenuto in considerazione nel momento in cui si accetta di intraprendere la strada del trapianto.

La durata dell’intervento è molto variabile (da un minimo di 4 ore a un massimo di 14 ore), cui vanno aggiunti i tempi anestesiologici, circa due ore in totale.

Le fasi del trapianto sono essenzialmente tre:

1.      Prelievo

Consiste nel prelevare l’organo da un donatore. Da non confondere con “espianto” che significa “togliere un organo non funzionante”. L’approccio chirurgico è diverso nella donazione vivente rispetto a quella su cadavere. Lo scopo comunque è di poter trapiantare nella massima sicurezza per il donatore (donazione vivente) e di garantire il ricevente sulla buona funzionalità dell’organo e sulla mancanza di patologie che possano compromettere il risultato finale. La donazione è per legge spontanea, gratuita ed anonima. Nei casi di donazione da vivente tra consanguinei l’anonimato non può ovviamente essere rispettato. In Italia esiste una legge detta “del buon samaritano” che permette a chiunque di poter donare un organo (rene) in forma del tutto anonima e gratuita e che favorisce i trapianti di tal genere. La donazione da vivente richiede comunque uno studio approfondito sul donatore e sulla sua incondizionata determinazione. Alla fine della fase di studio, prima di ogni decisione, interviene la magistratura, garante della corretta attuazione dell’iter medico-legale e di impropri condizionamenti sul donatore. Nella maggioranza dei casi il prelievo da cadavere si attua in Ospedali lontani da quello in cui verrà effettuato il trapianto. Dopo il prelievo (da vivente o da cadavere) l’organo rimane senza ossigeno e principi nutritivi e pertanto rischia di deteriorarsi funzionalmente; per questo si attuano delle procedure che permettano al medesimo di resistere a tale situazione. L’organo infatti viene privato del sangue in esso contenuto (per evitare che coaguli nei vasi) sostituendolo con soluzioni che ne preservano le cellule. Inoltre viene trasportato, in maniera sterile, coperto da soluzioni ghiacciate; con il freddo vengono diminuite le esigenze caloriche dell’organo. Anche se il paragone è improprio, ci si comporta come la casalinga che mette nel frigorifero le carni per conservarle più a lungo. Gli studi hanno inoltre confermano come gli organi resistano a questa situazione (detta ischemia: mancanza di sangue) in maniera diversa; nel caso del fegato è necessario ripristinare l’ossigenazione e nutrizione entro 12 ore, pena la compromissione del trapianto.

2.      Banco

Dovendoci attenere ai tempi specifici di ogni organo, nel prelievo da cadavere, ci si deve affrettare. Pertanto non si seguono le tecniche della “anatomia chirurgica” classica; con l’organo vengono prelevati parti dei tessuti od organi adiacenti. Comunque e sempre, tutto avviene nel massimo rispetto della integrità esteriore del corpo affinché il defunto venga consegnato ai suoi cari come se avesse subito un intervento chirurgico tradizionale. Il banco serve quindi a togliere parte dei tessuti che sono rimasti adesi all’organo facendo sì che questo possa essere inserito nel corpo del ricevente con i suoi assi vascolari senza altri componenti. Per ottimizzare i tempi del trapianto, il banco si attua in una camera operatoria attigua a quella del trapianto dove, contemporaneamente, un’equipe chirurgica inizia ad espiantare l’organo malato per lasciare spazio a quello donato.

3. Trapianto

a.     l’epatectomia (cioè la rimozione del fegato malato),

b.     il confezionamento delle anastomosi (cioè l’unione mediante suture tra i vasi del fegato del donatore e quelli del ricevente),

c.   la rivascolarizzazione del “nuovo” fegato (cioè la ripresa della normale irrorazione sanguigna che permette al fegato donato di ricominciare a funzionare).

d.      come ultimo passaggio si effettua la sutura tra la via biliare del fegato “nuovo” e quella del ricevente.

Ogni fase presenta delle difficoltà e dei rischi specifici, rappresentati in particolare dal sanguinamento (soprattutto nella prima fase) e dagli effetti sul cuore e sui polmoni che si verificano soprattutto nella terza fase.

Il sanguinamento rende spesso necessaria la trasfusione di numerosi litri di sangue.

I pazienti più a rischio sono quelli con grave alterazione della coagulazione (con conseguente diminuzione della capacità di formare i coaguli, cioè i “tappi” necessari a fermare il sanguinamento), quelli con un quadro di alta pressione nel circolo portale (il circolo che porta il sangue dall’intestino e dalla milza al fegato) e quelli che hanno già subito interventi chirurgici addominali in passato.???

Una volta rivascolarizzato, il fegato riprende a funzionare (seppur in modo graduale) riportando la coagulazione alla normalità e riducendo la pressione nel circolo portale. La piena ripresa della funzione del fegato avviene in un tempo estremamente variabile (ore o giorni, in alcuni casi settimane) e dipende sia dalle condizioni cliniche del ricevente sia dalle caratteristiche dell’organo trapiantato.

Dopo aver rivascolarizzato il fegato si effettua il collegamento mediante sutura tra la via biliare del donatore e quella del ricevente. Nella maggior parte dei casi questa sutura viene “protetta” da un drenaggio inserito dentro la via biliare che fuoriesce all’esterno: il tubo di Kehr. Tale drenaggio ha la funzione di portare all’esterno la bile, in modo da proteggere la sutura appena effettuata e da poter controllare la quantità e la qualità della bile stessa.

Nei casi in cui non è possibile effettuare questo collegamento perché la via biliare del ricevente non può essere utilizzata, si effettua una sutura tra la via biliare del donatore e l’intestino del ricevente (la cosiddetta “bilio-digestiva”): anche in questo caso, normalmente, si posiziona un drenaggio biliare del tutto analogo al tubo di Kehr.

All’uscita dalla sala operatoria il paziente avrà un sondino naso-gastrico, necessario per drenare le secrezioni gastriche nei primi giorni dopo l’intervento, almeno due drenaggi in silicone che fuoriescono dall’addome, oltre al suddetto tubo di Kehr e agli accessi venosi e/o arteriosi necessari per il successivo monitoraggio e la somministrazione di terapie.

A VOLTE SONO NECESSARI DUE O PIÙ INTERVENTI CHIRURGICI PER COMPLETARE IL TRAPIANTO.

Il caso più urgente è dovuto alla trombosi della sutura arteriosa; questa richiede un immediato ripristino della circolazione tramite un secondo intervento.

Però le situazioni più frequenti sono il sanguinamento di difficile controllo e/o l’impossibilità tecnica temporanea di eseguire l’anastomosi biliare.

Nel caso del sanguinamento può essere necessario lasciare alcuni telini in addome al fine di comprimere le zone sanguinanti; dopo 24-48 ore è necessario un nuovo intervento al fine di rimuovere i telini e di verificare la risoluzione del sanguinamento.

Altra situazione si verifica in caso di importante aumento della pressione del circolo portale, con conseguente “gonfiore” dell’intestino tale da rendere impossibile da un lato un’eventuale anastomosi biliare, dall’altro la chiusura definitiva della ferita chirurgica. Anche in questo caso dunque, dopo circa 48 ore, si procederà al reintervento.